Il viaggio del nostro dolore

POR QU~1

Riusciamo a circondarlo di mura così spesse e a isolarlo con barriere così invalicabili che, a volte, sembra proprio, non esistere più; è un’ illusione. Il dolore che ci ha feriti continua a tormentarci e a confonderci. Due cari amici, senza pace per la tossicodipendenza del figlio, hanno cercato di distaccarsi da questo problema, iniziando a viaggiare per il mondo.I paesi esotici, gli hotel raffinati e gli incontri folkloristici con le popolazioni locali non sono serviti, però, neanche per qualche istante, – così raccontavano – a sospendere la loro disperazione. E del restocome pensare di riuscire ad allontanarci da ciò che portiamo dentro di noi? Oltre le narrazioni del dolore che da sempre incontriamo nella poesia, nelle arti figurative, nei racconti degli altri, – praticamente ovunque – vale, innanzitutto, il fatto che ancor più si può dire del dolore quanto il Poeta scriveva della dolcezza dell’ amore : “intender non lo può chi non lo prova” . E’ un “provare” così intenso che niente, né parole, né persone, sembra più avere un qualche significato e ci ritroviamo preda di un vuoto assoluto.

Niente riesce a liberare l’ esperienza individuale che ci opprime e a metterla in comunicazione con il mondo che ci circonda. A noi, persone “normali”, in una quotidianità che di frequente siamo spinti a sentire “anonima”, anche il “dolore” può apparire come qualcosa da nascondere, non “nobile”, indegno di un Virgilio, di una Beatrice e di un San Bernardo che possano guidarci dalla voragine dell’ inferno all’ “ amor che move il sole e l’ altre stelle”. “Nella sofferenza vi è una recessione della comunicazione stessa. Il rischio è il muto patire che strettamente si imparenta alla morte” (S.Natoli, “L’ esperienza del dolore”, Feltrinelli, pag. 9).

Se si potesse gridare “aiuto!” ed incontrare, pronta, per noi, una mano che ci aiuta a ri-vivere! Se Dio raccogliesse e rispondesse alla domanda : “Perché proprio a me? Come è possibile questa sofferenza senza colpa da espiare ?” !. Invece restiamo soli.

Quale linguaggio, quale parole possono aiutarci ?

C’ è una strada. Unica, senza alternative. La indica un’ antica storia tratta dal Talmud (l’ oceanico commentario ebraico delle Sacre Scritture) che narra di quattro sapienti che vanno a far visita a rabbi Eliezer, gravemente ammalato. I primi tre gli rendono omaggio lodandolo senza riserve ; gli dicono che è prezioso ai loro occhi più della pioggia, più del sole, più dei genitori. Il quarto sapiente, il cui nome è Akivà, gli dice solamente : “Care devono essere a noi le nostre prove”. Sembra una provocazione ma, in realtà, è il profondo insegnamento – l’ unico, forse – al quale possiamo aggrapparci. Le prove, anche le più dure ed incomprensibili, di cui tutti prima o poi abbiamo esperienza, debbono essere accolte da chi le subisce. Per non subire l’ abbraccio mortale del mutismo spirituale, non c’ è altra strada che quella di intraprendere, faticosamente, il cammino dell’ accettazione.

Come Giobbe, restiamo, quindi, in attesa, con stretto in mano il coccio delle nostre aspettative e dei nostri sogni andati in frantumi. “Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere … Nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore. Dopo Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire : Perisca il giorno in cui nacque la notte in cui si disse : “E’ stato concepito un uomo!”” (Gb 2, 8 – 3, 1-3).

Restiamo in attesa di un una sapienza, di una voce, che, ci verrà incontro. Fiduciosi senza autentiche certezze.

Dovrà essere, però, un linguaggio nuovo, altro rispetto a quello dei mass-media o dei moralisti sentenziosi (Elifaz, appunto, Bildar e Zofar), o a quello delle convenzioni che non intercettano neanche una delle nostre lunghe pause di respiro.

Restiamo in attesa di una Parola che potrà arrivare solo da un amico, uomo o Dio non ha importanza.

Potrà essere la Parola di un uomo:

“ Io sento come una compassione universale

che ha preceduto la genesi e la giustifica.

Perché non dovrebbe sopravviverci?

Che cosa resta della terra esplorata,

e dei campi su cui abbiamo edificato la nostra storia,

se non sarà un uomo,

uno che beve e sanguina,

quello a cui passeremo la staffetta?”

(Roberto Mussapi, “La polvere ed il fuoco”, Mondadori, Milano 1997, p.16).

Potrà essere la Parola di Dio che ascoltò Anna, resa sterile e umiliata nella sua condizione di donna non-madre. In una delle pagine più commoventi della Bibbia Anna “un giorno, dopo aver mangiato in Silo e bevuto si alzò e andò a presentarsi al Signore. Essa era afflitta e innalzò la preghiera al Signore piangendo amaramente”.

Il dolore l’ opprimeva con tale forza che Anna “pregava in cuor suo e si muovevavno soltanto le labbra ma la voce non si udiva; perciò Eli [il sacerdote] la ritenne ubriaca. Le disse Eli : “Fino a quando rimarrai ubriaca? Liberati dal vino che hai bevuto!”. Anna rispose : “No, mio Signore, io sono una donna affranta, e non ho bevuto né vino né altra bevanda inebriante, ma sto solo sfogandomi davanti al Signore. Non considerare la tua donna una serva iniqua, poiché finora mi ha fatto parlare l’ eccesso del dolore e della mia amarezza”. (1 Samuele 9-10).

Allora Dio – quel Dio che conta ogni passo del nostro vagare e raccoglie nel suo otre ogni nostra lacrima (cfr. Salmo 55) – ascoltò Anna che “al finir dell’ anno concepì e partorì un figlio”.

Così Anna rientrò nella vita e nella storia. E così è anche la nostra storia.

P.S. Quante Anne, spettinate, vestite in modo sciatto, ci troviamo, a volte, accanto, al bancone del bar, a prendere un caffè, o, in un angolo, chine su una slot-machine, e, per quel nervoso tremito della mano o della testa, di cui non sappiamo la storia, giudichiamo “ubriache” o “fatte”?

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