Dieci anni fa alloggiai per la prima volta a Sala Daeng, uno dei due soli punti di Bangkok dove si incrociano il treno sopraelevato e la metropolitana.
La sera la strada si animava di colori e aromi, con carretti di cibo sotto ombrelloni rossi e blu che si univano in una distesa continua lungo i lati dei marciapiedi, brulicanti di avventori seduti su piccoli sgabelli di plastica. Un intero settore veniva poi chiuso al traffico, e quando i venditori di fiori finivano la loro attività, la strada si copriva di un tappeto di petali appassiti.
Tutt’intorno il caos energizzante tipico di Bangkok con il rombo delle motorette, la musica dai tuk tuk ed il traffico a qualsiasi ora.
A pochi passi, il famoso mercato di Patpong, con al centro la lunghissima distesa di bancarelle con in vendita ogni genere di oggetto, accompagnata sui lati da decine di “go-go bar” pieni di spogliarelliste e buttadentro intenti ad offrire vari show al fiume di turisti costituito tanto da fruitori della prostituzione, quanto da semplici curiosi, come normalissime coppie giovani, che mentre acquistavano una borsetta taroccata, magari approfittavano per bere due cocktail a prezzo di saldo guardando una giovane thai danzare sul palo. Comunque la si voglia vedere, tutto ciò aggiungeva un enorme folklore alla città.
Una città viva, all’incrocio estremo fra una Las Vegas e un paese del Laos, dove le notti senza fine di turisti o thailandesi benestanti in festa, si intersecavano proprio alle luci dell’alba con le sveglie laboriose dei mercanti di strada.
Mio padre fece in tempo a gustare un ultimo scorcio di quella Bangkok nel 2019 e amava guardarla prender vita al mattino, definendola una “città formicaio” dove poco a poco fuoriuscivano tutti questi venditori ad affollare i marciapiedi a due passi dagli hotel a cinque stelle, in uno splendido contrasto di modernità e tradizione.
A distanza di soli tre anni, a causa anche degli stravolgimenti della pandemia, quella Bangkok non esiste infatti più. Il mercato di Patpong, ridotto a una desolazione, con qualche passante sparuto, bancarelle solitarie e qualche intrattenitrice quasi scoraggiata alla porta dei locali. E al loro posto?
Uno Starbucks, un Decathlon, l’ennesimo centro commerciale.
Nel frattempo sono però sorti in altre zone edifici quali un enorme centro conferenze che sembra la copia del Suntec di Singapore, accanto al bellissimo parco Benjakitti, che risulta chiaramente ispirato a realtà ultramoderne quali Singapore e Tokyo.
Nel complesso, si tratta di luoghi belli e ordinati ma freddi, futuristici, asettici, che ricordano sempre più le atmosfere di film di fantascienza come Blade Runner e che ormai fanno sembrare le città evolute tutte uguali, in uno scenario che appare sempre più distopico.
La vita richiede un equilibrio fra ordine e caos, perché il caos è anche vitalità e tutto quanto vi era prima, in forma magari meno organizzata, più improvvisata, frutto della creatività individuale nonché della storia di un paese e talvolta dell’aggiramento di qualche regola, era però tremendamente vivo, frizzante, e rendeva la metropoli degna di essere vissuta in ogni sua sfaccettatura. Oggi recarsi a Bangkok trasmette sempre più la sgradevole sensazione di aver preso un volo di due ore per ritrovarsi a Singapore, soltanto con prezzi più abbordabili. Si può dire con sicurezza che la Bangkok di Montalban, non esiste più.
Del resto questa pandemia chi ha ucciso per primi? Proprio il piccolo, il folkloristico, il caratteristico di un luogo, che magari stava lì da decenni a conservare qualche traccia storica, con l’emblema del commerciante solitario che senza clientela o turismo non ha potuto reggere. E invece Starbucks, Decathlon, Uniqlo, giganti apolidi hanno avuto tutto il tempo e il capitale di attendere e strappare magari anche affitti favorevoli, inghiottendo i nostri spazi di “vita vissuta” e rinchiudendoci invece dentro quelli del conformismo globalista, studiati con la precisione tipica di un algoritmo commerciale e privi di spontaneità, di slancio umano ed energia. Spazi che dovrebbero farci riscoprire invece le nostre tradizioni e la nostra umanità in quei pochi momenti in cui ormai usciamo di casa a fare una pausa dall’altra grande prigione dei nostri tempi: quella realtà virtuale solipsistica fatta solo di schermi – piccoli o grandi – che non richiede nemmeno di alzarsi dal divano di casa.
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