Geminello Alvi. Il capitalismo verso l’ideale cinese

Di lui Oscar Giannino dice: “Ogni suo libro è stato per me un’avventura intellettuale, è una delle rarissime persone nel nostro Paese che ha unito grandi scuole con grandi maestri, è una figura d’incredibile cultura, capace di innestare filosofia, antropologia, storia delle religioni nella sua visione dell’economia, in una matrice tedesca di inizio Novecento. In ogni suo libro ha saputo prevedere cosa sarebbe accaduto negli anni successivi”. Vi parliamo di Geminello Alvi che ha pubblicato il suo ultimo libro Il capitalismo verso l’ideale cinese per i tipi di Marsilio. Un libro particolare, che apparentemente predice una sorta di fine del mondo, l’ultima riga recita «ci sarà bisogno dei pochi quando il drago sortirà dall’abisso”. Sembrerebbe non esserci una soluzione dietro l’angolo all’attuale crisi, ma la sua riflessione ha a che vedere con i tratti di fondo dell’economia di mercato rispetto ai concetti di libertà e democrazia e non si limita ai luoghi comuni del “abbassato il costo del lavoro diventeremo tutti cinesi”. Di una recente conversazione intervista di Giannino ad Alvi vogliamo oggi darvi conto, perché ci pare che in essa si siano espressi alcuni concetti di notevole pregnanza.

“L’ultima disastrosa sfida dopo quella della finanziarizzazione – esordisce Alvi – è quella della Cina, sfida che ha reclamato le sue vittime, ma ha soprattutto nutrito una serie di ambiguità su quello che sono realmente la Cina e la sua economia, su quanto tutto sommato quello cinese sia un modello di capitalismo, cosa su cui – afferma – si può anche concordare, ma a patto che si arrivi a una definizione diversa del capitalismo. Quella cinese è in effetti un’economia controllata dal partito Comunista, che in Cina ha 75 milioni di iscritti, attraverso un sistema bancario che ubbidisce ai criteri delle banche di stato previsti dal manifesto di Marx. C’è un controllo pressoché totale di gran parte della proprietà privata da parte del partito e c’è una moneta del tutto sottovalutata. Sussistono cioè tutti i caratteri di qualcosa che è a metà fra il mercantilismo e il Comunismo. Il gran paradosso è che questo sistema viene oggi considerato vincente e invidiabile anche da parte del mondo capitalista occidentale”.

A questo punto Alvi si chiede come sia possibile. Ma non ci avevano spiegato che il capitalismo era il mercato, era Greenspan? E come esplode tutto ciò? Per lo studioso i primi complici di questo sistema sono stati gli Americani: “Negli anni Novanta, un suonatore di sassofono (Clinton) e uno statistico come Greenspan lanciarono quest’idea di una produttività che sarebbe cresciuta grazie all’innovazione, ma soprattutto alla stampa di moneta, attività quest’ultima che ha contribuito a nutrire il sistema cinese. Si spiega alla gente che i Cinesi tengono per il collo l’America comprandone il debito, ma non si dice che ogni anno le banche cinesi accumulano una sofferenza e vengono ricapitalizzate. Quello cinese è cioè un enorme sistema in perdita, con un’enorme sovracapitalizzazione, che non discrimina negli investimenti e viene rifinanziato ogni volta nei mercati internazionali. Cioè le banche cinesi fanno dividendi perché vendono a un sovrapprezzo le azioni americane. Quindi il gioco è molto più complicato e ambiguo di quanto non appaia”.

Insomma con i bassi tassi di Greenspan e l’enorme quantità di dollari prodotti dal torchio americano in quegli anni è stata creata una delle condizioni fondanti del successo cinese. Giannino a sua volta evidenzia che “La storia del mondo smentisce quei keynesiani che dicono si debbano sempre preferire dei tassi bassi a un aggiustamento reale dei salari. L’oceanica liquidità crea condizioni che poi esplodono. Greenspan (grande discepolo di Ayn Rand, esule liberal russa che concepì una sorta di ideologizzazione del talento individuale dell’imprenditore in lotta contro il mondo) lo scriveva nel ‘66, sennonché diventato presidente della Fed fece l’esatto opposto: abbattè i tassi e invase il mondo di dollari”.

La semplificazione giornalistica cui siamo abituati è per Alvi accademica e non dà conto del problema. “Una generazione di politici è stata educata all’idea che un po’ di spesa pubblica serva, faccia effetto subito e riavvii l’accumulazione: è una menzogna. Come aveva spiegato il grande von Hayek e spiega ogni teoria del capitale, il capitale richiede un’attitudine completamente diversa, poiché la moneta non ha effetto generale ma relativo sui prezzi. Essa ha infatti creato prima un boom delle “tigri asiatiche” per poi sgonfiarlo, poi quello di internet e ha sgonfiato anche quello, con l’effetto di mandare alle stelle i costi dell’energia ove si era invece investito troppo poco”. Per Alvi tutta la storia degli ultimi quindici anni è la conferma che nella polemica tra Hayek e Keynes aveva ragione Hayek. La stampa di moneta è un criterio sovietico pessimo, paradossalmente applicato da Greenspan, che crea squilibri nell’accumulazione di capitali, uno dei quali squilibri è proprio l’euro.

Caustico Giannino sullo scenario europeo: “Il capitalismo, l’economia di mercato, guidati da cattivi regolatori (gli economisti e gli accademici) produce effetti nefasti che poi richiedono o la stampa di banconote a iosa o lo stato di guerra per le correzioni”. “L’euro insomma – riprende Alvi – nasce con questa grande illusione: tassi bassi, tutti alla convergenza, per non fare più guerre. L’euro nasce già decorato dagli europei che affermano di aver fatto una cosa grandiosa quando il suo successo è dipeso dai relativamente ancora pochi sacrifici fatti aumentando le tasse (l’eurotassa, una cosa vergognosa, un acconto di patrimonio, un prestito forzoso che poi andava restituito ed è finito scritto come acconto di reddito, un’aberrazione per cui si dovrebbe andare in galera), dall’aver tagliato poco le spese e dai Cinesi che producevano deflazione con Greenspan che teneva i tassi bassi. Questo ha permesso il veloce rientro italiano negli anni Novanta, indebitandoci a tassi troppo bassi, una situazione da America latina.

L’Italia è saltata sul carro del calcolo politico francese che veniva dalla Seconda guerra mondiale: diceva Mitterand “Noi abbiamo la bomba atomica ma i tedeschi il marco, che conta di più, dobbiamo toglierglielo”. Hanno approfittato della riunificazione per ricattarli inventando l’euro, con i Tedeschi che dicevano “No, prima facciamo l’unità politica poi la moneta unica, altrimenti il sistema si sfascia” e la cosa si sta puntualmente verificando. L’Italia vi ha visto una soluzione magica, che avrebbe abbassato i tassi, ma poi ci siamo trovati in una situazione paradossale: abbiamo gli stessi tassi della lira, ma non possiamo più svalutare. I tassi a lunga scadenza li fa il debito pubblico, cosa scritta in qualunque manuale di economia e che io avevo previsto già degli anni Novanta. Oggi tutto il costo vero del denaro viene traslato sui cittadini.

L’euro è una parte di questo grande capitale fittizio creato per i mutui, creato su questa congiuntura dei tassi e il problema vero è che a questo capitale dovrebbe corrispondere nel futuro un’efficienza, un rendimento dell’economia, ma negli anni in cui la nostra economia andava riformata in Italia ci siamo vantati di un’occupazione che non valeva niente, fatta di giovani avvocati e badanti (mentre i tedeschi sopportavano 4 milioni di disoccupati), con finte riforme delle pensioni; ora il capitale si deve inevitabilmente ridimensionare, imponendosi qualche forma di ristrutturazione. Ciò che accade in Grecia – prosegue torrenziale Alvi – non dipende dalla speculazione, dipende dal fatto che il denaro, il capitale dipende da un atto di fiducia, sia quello industriale che quello messo dagli stati, che da un po’ di secoli ha questa virtù di creare una base monetaria per l’espansione. Insomma, inizia un periodo ove si deve mobilitare veramente il capitale in modo meno dilettantesco (è impossibile vendere i patrimoni pubblici in breve tempo come si millanta oggi per esempio, andrebbe creato un veicolo di 2-300 miliardi, metterlo in forma di un fondo a garanzia di banche e privati che possano eventualmente convertire l’investimento di queste attività in titoli pubblici). Già oggi, se uno va a riscattare titoli pubblici, btp, cct, non valgono più 100 ma 84, o 95, ecc. ed è la conseguenza di non aver preso vere decisioni quando era ora”. Per Alvi oggi tutti parlano di crescita e di Pil e non sanno di cosa parlano. “Il Pil contraddice tutti i sani criteri di Smith, di Giorgio Fuà… L’economia è come un modello mentale, un’astrazione, tutti hanno un’dea di crescita, il tassista, il giardiniere, ma neppure il banchiere sa nell’operatività delle cose cosa sono un cdo, un cds [Collarized debt obbligation, Credit default swap ndr]. Gli aspetti tecnici, le funzioni di probabilità che stanno dietro le diverse operazioni finanziarie sono state date per scontate, è un mondo di astrazioni, di matematismi. Ritorniamo ai fatti; la parola magica, la ‘crescita’, non basta a ridare lavoro ai nostri figli, a chi l’ha perso. L’economia, la dignità umana sono cose serie che non trovano scorciatoie nella stampa di denaro da parte di uno stato.

Qui tutti vogliono che i politici… ci pensino loro, ma questi non sono nemmeno capaci di sfiorare i problemi, non riescono nemmeno recitare, è un sistema cui si chiede troppo, troppe funzioni, abbiamo una condizione di stati alterati ove il capitalismo ha perseguito un principio proprio del comunismo: ‘a ognuno secondo le possibilità, secondo i bisogni’. Qui si vuole il reddito garantito, come se il capitale fosse un mucchio di grano che si porta da una parte e dall’altra, da dove ce n’è troppo a dove ce n’è troppo poco. Questo è primitivo. Il capitale non è questo, è un nesso vivente di creatività, di energia che trova riscontro nei bilanci e nella corrispondenza tra il risultato ottenuto mettendolo in atto e la fiducia che all’inizio gli è stata accordata. Tutti vogliono tutto, più c’è crescita più questa pretesa aumenta, è una follia. Me la prendo con tutte le cose in cui nell’immaginario i popoli celebrano le proprie vanità.

Non è un caso che per la prima volta la parola “capitalismo” sia stata usata non da Marx ma nella letteratura inglese da William Makepeace Thackeray, nel suo romanzo La fiera delle vanità”. “Interpretato in questo senso – rileva Giannino – il Capitalismo è una sorta di cavallo di Troia dell’avidità, che porta in pancia l’inganno, mentre esiste un’epica della mitezza, della fraternità, quello che potrebbe sembrare un ideale francescano che Alvi traduce invece in concrete modifiche di come andrebbe organizzata la vita di tutti. Ciò che siamo abituati a chiedere allo Stato andrebbe cioè improntato all’economia del dono, dello scambio consapevole, nella sanità, nel sostegno alle famiglie, nel welfare. Ciò, anziché pretendere che lo Stato ci dia tutto e anche gratis, in una sorta di tassazione asintotica: 100% di tasse allo Stato che poi redistribuisce”. L’eterodossia dell’intervista che abbiamo avuto modo di ascoltare prosegue con ulteriori affermazioni dell’autore del volume: “Bisognerebbe invece insegnare a tutti ad assumersi precise responsabilità; la solidarietà non può essere intesa come un dono dello Stato, delle religioni; la solidarietà è un atto cosciente e voluto, epico, di simpateticità nei confronti dell’altro. L’idea che ‘debba pensarci lo Stato’ è una scorciatoia nella quale ci si sottrae alla propria responsabilità e forza morale.

Per esempio – insiste Alvi – il grande pensiero anarchico non è mai caduto in questa coscienza di gregge ove sono invece caduti Comunismo e Socialismo, che hanno creato un gregge che reclama fratellanza allo Stato… ma così non la creiamo proprio”. Giannino non manca di apprezzare ancora il teorizzare alviano: “Alvi indica la grandezza di un pensiero anarchico che s’innesta nella sua solida visione di cos’è la moneta e dell’abuso di fiducia pubblica nella moneta, il quale porta alla grande illusione che stampando moneta si porti ricchezza a tutti, una visione che invoca il ritorno a un’economia di mercato basata sulla persona, dove le tasse servano solo a ciò che dobbiamo aspettarci minimamente dallo Stato; una concezione diversa molto più equilibratrice e ‘antibolle’ di quella in cui siamo abituati a vivere, a vedere propagandata sui giornali, insegnata nelle accademie. Una visione radicalmente alternativa senza essere anticapitalista”.

Per Alvi, ancora, “Lo Stato dovrebbe occuparsi di amministrare solamente la Magistratura e le forze della difesa, cosa che in Italia già è fatta male: abbiamo cinque tipi di polizie e metà del Paese in mano alla criminalità. Tutto il settore dell’istruzione – prosegue -, della cultura, viene omologato nei suoi vari piani dall’educazione statale, in un istupidimento solidaristico che procede dalla prima elementare in poi. Si inventano parole le più burocratiche e più folli, basti andare a vedere i corsi universitari, con la fine della dignità della stessa istituzione accademica, a opera di una manipolazione statale che ha permesso che l’università sia diventata preda ideologica dal ’69 in poi di una serie di movimenti studenteschi, i quali si sono impadroniti dell’istituzione e sono ora a stipendio statale (e naturalmente proclamano e insegnano quotidianamente quest’idea che solo lo Stato può rappresentare gli interessi pubblici).

La verità è che lo Stato rappresenta gli interessi particolari di chi ha conquistato queste istituzioni, interessi particolari ogni volta vantati come interessi pubblici e guai a chi glieli tocca, poiché costoro si costituiscono come fonte di morale”. Il fiume in piena alviano non s’arresta: “L’alternativa, soprattutto in una fase così dolorosa della nazione, è l’istituzione di fondazioni, accademie, associazioni solidali nelle quali circoli l’amore per la libertà che conduce all’amore della verità, che non può essere messa a voti di maggioranza. Gesù Cristo è stato messo ai voti della maggioranza e la maggioranza lo ha crocifisso. C’è una definizione di Comunismo precedente a Marx: ‘I Comunisti sono quelli che vogliono mettere la verità a maggioranza’, mentre la verità deve trovare ambiti propri di libertà. Vanno favoriti i migliori, non i più ricchi naturalmente, bisogna tornare alla natura vera del capitale, che è un impegno di responsabilità individuale, che è una meraviglia nella sua costituzione in questa epoca e deve tornare alla propria natura epica e solidale, di costruzione tecnica”.

Ciò che ci attende in ogni caso, conclude Giannino, è il ‘decumulo del capitale’ e spesso le menzogne dei politici dipendono più da ignoranza che dalla volontà di prendere in giro, cosa che ottiene spesso risultati peggiori della malafede. Esisterebbe un capitalismo, un’economia interpersonale, che non s’identifica nell’utilitarismo bieco ma in una visione diversa, ove vita, famiglia, sanità, tutto ciò che è costruzione di fiducia non si deve perseguire con eccesso di fiducia da eccesso di moneta pubblica. I fondamenti di cui s’è parlato spiegano le grandi illusioni che ci hanno portato all’esplosione di un modello d’intermediazione finanziaria, all’eccesso di consumo privato finanziato a debito e all’eccesso di consumo di fiducia fondata sull’eccesso di inflazione di fiducia pubblica, moneta e debito pubblico”.

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