In un precedente articolo abbiamo visto il pensiero del diplomatico britannico Paddy Ashdown per il quale “nessun uomo è un’isola” come diceva il poeta John Donne e il vuoto di potere lasciato dalla finanza globale è stato riempito via, via da prassi speculative non regolamentate a sufficienza, criminalità, da accordi trasversali fra stati sovrani in conseguenza dei quali, nella competizione globale, vittime e carnefici finiscono per seguire simili destini sociali. Il peso dato da Ashdown alla necessità di articolare questi accordi grazie a forum e organismi internazionali viene controbilanciato ma forse integrato da quello di Dani Rodrik (classe 1957, nato a Istanbul, docente ad Harvard) e considerato fra i cento economisti più influenti del mondo. Egli, in un’amara visione del ruolo e delle competenze degli economisti afferma che la risposta all’attuale ricerca di una versione “3.0” del capitalismo, dopo quella liberista (1.0), che affidava agli stati funzioni minime di tutela dei mercati e della proprietà e quella basata su una governance attiva dei fattori economici e sociali da parte delle istituzioni nazionali (2.0), non possa venire semplicemente da una governance mondiale, modellata sulla globalizzazione economica.
Per Rodrik essa non solo rappresenta una strategia irrealistica e irrealizzabile, ma forse è anche poco auspicabile, perché “nei paesi democratici l’economia ha bisogno di essere legittimata sul piano politico-istituzionale e questa legittimazione oggi avviene prevalentemente su base nazionale”. In ciò entra anche il problema dei rapporti con stati poco democratici che sono assai “gelosi” della propria autonomia decisionale e dei vantaggi che derivano loro da un’applicazione pragmatica di un potere la cui esplicitazione non dipende da un confronto civile eappunto democratico con i soggetti sociali, così come siamo abituati a intenderlo nelle nazioni occidentali.
Se le prime teorie sul capitalismo di Adam Smith affermavano che il mercato e la concorrenza sono i motori economici più dinamici e più adatti alla creazione della ricchezza, la versione “2.0” del capitalismo si basa sulla convinzione che ci vogliano istituzioni e meccanismi di governance che ne garantiscano il buon funzionamento. Per Keynes, cioè, il mercato non si autostabilizza né si autolegittima senza meccanismi economici e di tutela sociale la cui responsabilità spetta alle istituzioni democratiche. Ma attualmente, sotto la spinta di Wto (Organizzazione mondiale del commercio) e mercati finanziari, subiamo una pressione verso l’iperglobalizzazione che guarda con favore a una deregulation radicale negli scambi commerciali e negli investimenti fra i paesi. Siamo quindi al cospetto di un serissimo problema di legittimità.
La Cina per esempio, non ha liberalizzato subito il commercio, ha aderito al Wto dopo diversi anni, ma si arrocca gelosamente, in certo modo ha aperto la finestra per godersi un po’ d’aria fresca senza far entrare le zanzare con furbesche zanzariere. Contro la tentazione di basare il capitalismo “3.0” sulla globalizzazione della governance, come risposta ai problemi di gestione della globalizzazione dei mercati, Rodrik ricorda quindi che la democrazia si basa sugli stati, ognuno con le sue esigenze e preferenze, aspetto che non rappresenterebbe un inconveniente, ma il modo in cui semplicemente sono stati costruiti i sistemi democratici ed economici moderni. Pertanto, se c’è chi vuole introdurre discipline particolari sul versante dei mercati finanziari da una parte, è lecito che lo faccia, mentre altrove chi non ha tale bisogno dev’essere libero di agire diversamente, puntando eventualmente al superamento delle barriere nazionali, laddove si ritiene sensato farlo. Verso i paesi non democratici, poi, dovranno essere applicate regole meno permissive.
All’auspicio del britannico Paddy Ashdown che siano accordi sovranazionali, quindi in chiave comunque globalizzante, a superare le incongruenze attuali del sistema capitalistico in clamorosa crisi, Dani Rodrik oppone la constatazione che in realtà, come ricordavamo la scorsa settimana, al momento, gli unici soggetti che per esempio in Europa stiano effettivamente facendo qualcosa di concreto per affrontare la difficile congiuntura internazionale siano gli stati sovrani come Germania, Italia e Francia, a fronte dell’evanescenza dell’azione di agglomerati come il Fondo monetario internazionale. Ciò pur nella difficoltà di processi che non possono che essere lenti e laboriosi e generano conseguenze come la diffidenza e il risentimento greco verso i Tedeschi (le cicale e le formiche dell’economia europea del terzo millennio), nell’arduo sistema di rapporti di forze fra Paesi più o meno potenti economicamente e influenti sul piano internazionale. Ancora una volta, più che di globalizzazione selvaggia, dovremmo riuscire a parlare di glocalizzazione, apertura sì, ma nel rispetto di identità e scenari locali legittimi e nei quali gli organi decisionali siano vicini alle esigenze espresse dai rispettivi territori, con le loro caratteristiche e istanze.
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