Cultura, ricerca e formazione fanno parte del welfare

In questi tempi di vacche magrissime, uno dei rischi più in agguato per la tenuta del tessuto sociale e della qualità civile delle comunità è quello del prevalere di derive populiste che, a fini di interessi pseudo politici e adottando strategie demagogiche, vorrebbero spostare significative risorse dagli investimenti in cultura verso voci del welfare apparentemente più “stringenti”.Diamo per scontata la necessità di preservare le tutele essenziali inderogabili di una democrazia evoluta, ma riteniamo si debba assolutamente evitare di scadere in visioni becere e di corto respiro che, equivocando sul ruolo fondante della cultura e dell’arte, attribuiscono a tali valori etichette ideologicamente fuorvianti, classificandoli più come aspetti voluttuari e accessori dell’esistenza degli individui e delle società. Quasi beni di lusso cui dover destinare investimenti solo quando in via prioritaria si sia assicurata l’erogazione di altri servizi considerati primari per le persone.Lo stravolgimento etico di tale corrente di pensiero (in genere propugnata da chi cerca facile consenso strumentalizzando le difficoltà e sofferenze oggettive degli individui) è purtroppo solo per alcuni evidente. Soprattutto in momenti di profonda crisi è quindi cogente attivarsi per difendere con forza una concezione valoriale che veda nell’arte e nella cultura dei popoli, nel sapere, nella formazione e nella ricerca voci invece fondamentali e imprescindibili di un concetto moderno ed evoluto proprio del welfare, pena il pericolo di regredire e sprofondare verso sommarie e note semplificazioni del tipo “con la cultura non si mangia” che trovano molti sostenitori.Non accettando l’idea di un essere umano inteso come mero “tubo digerente” che cammina, vorremmo peraltro ricordare che queste sono convinzioni smentite anche dalle più recenti indagini economico-sociali, le quali riscontrano semmai livelli di benessere e indici del famigerato Pil più alti proprio laddove, al contrario, su tali versanti si decida di continuare a investire, creando processi virtuosi e propulsori per la dinamicità dei territori. Anziché di tagli alla cultura in favore del welfare, dovremmo cioè badare a parlare semmai di razionalizzazione dell’uso delle risorse per un welfare che della cultura investita di valenze sociali sappia fare una delle proprie infrastrutture portanti.Suona triste dover ricordare che uno degli aspetti oggettivi di quell’Italietta di cui non possiamo andare orgogliosi nel mondo sia storicamente il grado di ignoranza e scarso spessore di una certa borghesia e delle nostre classi dirigenti che, diversamente da quelle di altri Paesi del mondo e dell’area euro, hanno sempre mostrato ben scarsa sensibilità verso questi temi. Il nostro Paese non ha del resto ancora saputo produrre neanche un quadro legislativo davvero capace di incentivare il sostegno del mondo privato a queste priorità, che quando entra invece in sinergia con quello pubblico può dar vita a scenari di incoraggiante civiltà con ricadute positive anche in termini meramente economici. Salvo non vogliamo accontentarci dei soliti giochetti di sponsorizzazioni gonfiate a fini fiscali nelle quali invece lungo lo stivale pare siamo maestri.Citando materiali della Fondazione Rosselli (istituita a Torino fra gli altri da Norberto Bobbio, Sandro Pertini, Giovanni Spadolini nel 1988), che anche di questi aspetti della vita delle istituzioni e della società si occupa, segnaliamo che il 20 e il 21 ottobre si è svolto a Bruxelles l’European cultural Forum 2011, un evento che la Commissione Europea organizza ogni due anni per discutere e condividere l’implementazione dell’Agenda Europea sulla Cultura.Ottocento delegati, provenienti da tutta Europa, operatori culturali, artisti, manager, associazioni, accademici uniti dalla comune convinzione che la creatività sia non solo motore di sviluppo economico (principio già introiettato da molti anni in ambito internazionale – solo in tempi più recenti in Italia – e per fortuna finalmente confermato da numerose best practice regionali) ma un vero e proprio asset economico e sociale del nostro continente nei processi di globalizzazione. Sottesa alle discussioni intorno a questi tre temi è stata la preoccupazione intorno al ruolo che sarà attribuito alla cultura nel prossimo bilancio UE (2014-2020). La maggioranza dei relatori, infatti, ha portato significative testimonianze sui molteplici effetti benefici dell’industria creativa (che sensu latu comprende non solo le imprese culturali ma tutto il sistema che ruota intorno alla produzione di creatività e innovazione), ma anche sui rischi di un sistema che tende sempre di più a riconoscere come degno di investimenti – e quindi di essere posto al centro di un programma di politiche pubbliche – solo ciò che ha un evidente e immediato ritorno economico, laddove la cultura ha dei fortissimi ritorni nel medio lungo periodo e in attività apparentemente “fuori mercato” (da segnalare a questo proposito l’intervento del professor Luigi Sacco, che ha “misurato” gli effetti socio-economici indiretti della produzione – e partecipazione – culturale).Tra gli altri temi al centro del dibattito, ci sembra qui interessante segnalare:- L’importanza delle alleanze strategiche tra industria creativa e industria tradizionale- Il concetto di public value come business model- La gestione della transizione tra il mondo analogico e il mondo digitale quale vera sfida per il soggetto pubblico- Il ripensamento dei curricula scolastici: sono funzionali a stimolare idee e visioni o all’immediata ricerca di lavoro?- La creatività sempre più strumento di identificazione dell’Europa rispetto al resto del mondo- Cosa significa porre la cultura al primo posto dell’agenda politica.La Fondazione Rosselli giustamente ricorda che su questi temi sarebbe interessante aprire in Italia una riflessione seria e costruttiva, in linea con il dibattito europeo, visto che proprio su di essi l’Italia, per eccellenza, potrebbe farsi laboratorio di innovazione e sperimentazione. Per l’ennesima volta siamo davanti a una situazione ove l’impressionante potenziale del nostro Paese non viene sfruttato, tanto meno messo a sistema. Nel frattempo, nella devastazione che dilaga, le comunità continuano a impoverirsi di strumenti culturali e critici per affrontare le sfide del presente e del futuro, le esperienze positive faticano a bucare lo schermo e ad approvvigionarsi delle meritate risorse e le classi dirigenti mostrano tutta la loro inefficienza e mancanza di creatività, esprimendo il peggio dei contesti che dovrebbero guidare, offrendo così sconfinati varchi al prevalere di interessi particolari e aberrazioni del potere dei pochi sui tanti.

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