Compositori: i grandi assenti dell’assente intellettualità moderna

large 117Uno degli aspetti di cambiamento antropologico della società moderna rispetto a qualche decennio orsono è il rapporto della società con la cultura. Gli intellettuali, dal canto loro, sono spariti si dice. L’intellettualità nell’arte paga altrettanta evanescenza. Le opinioni che contano e i paradigmi valoriali vengono dai vólti mediatici buoni per tutti gli argomenti, esattamente come i politici, e dai singoli sconosciuti quando accedono al loro quarto d’ora di celebrità televisiva, magari durante qualche rissa su temi condominiali o di corna. Se la dimensione dell’impegno s’è defilata fortemente in tutte le discipline artistiche, in campo musicale la “deforestazione” pare essere stata più radicale e all’intellettualità che aveva abitato storicamente il mondo dei compositori fino alle Avanguardie e agli inizi degli anni Ottanta è venuto a mancare più ossigeno che ad altri settori espressivi.

Non che non esistano ancora oggi seppur rari compositori attenti a mettere nel proprio lavoro i contenuti desumibili dal dialogo con il pensiero filosofico contemporaneo, con i problemi e l’engagement civile, politico, ma, complice anche la difficoltà dei linguaggi musicali cólti affermatasi dal Novecento (che ha ormai disperso un rapporto minimamente significativo con il cosiddetto “grande pubblico”), i concerti di musica “contemporanea” sono oggi seguiti da sparutissime nicchie di aficionados e i festival vengono organizzati per pochi intimi, salvo alcune eccezioni, se non ci si rifugia in modaiole e giovanilistiche contaminazioni, nel cross-over, nelle macedonie in salsa new-age e minimalista per salvare le esigenze del botteghino. Alla già quasi estinta categoria degli intellettuali in senso lato intesa mancano, insomma, ormai endemicamente gli apporti di figure forti del panorama compositivo moderno.

(E “chissenefrega” qualcuno penserà…)

Naturalmente, parlando di utenza possibile, non ci riferiamo ai cultori dei generi leggeri, per i quali peraltro si nota la difficoltà del corrispondente in chiave pop rappresentato dagli altrettanto decimati cantautori (e anche il rock gode di pessima salute), ma a quell’ambiente ove, fino alla fine del secolo scorso, almeno non del tutto sconosciuta era l’attività di nomi come Luigi Nono, Giacomo Manzoni, Luciano Berio, Salvatore Sciarrino, Franco Donatoni, Sylvano Bussotti, Armando Gentilucci e via dicendo, che collaboravano con i poeti coevi, con semiologi del calibro di Umberto Eco, con filosofi come Cacciari o Vattimo, con registi di cinema e teatro. In quell’ambiente, quello dei frequentatori dei teatri, ora i più ignorano di fatto chi siano i compositori impegnati del presente e quali eventuali idee propugnino attraverso la propria musica.

Certo non è che dai corsi di Composizione dei Conservatori abbiano improvvisamente smesso di uscire belle teste pensanti e matite scriventi del pentagramma, ma molti nodi si sono ormai inesorabilmente stretti alla gola di questa nicchia di autori e la società non chiede loro al momento un apporto significativo al profilo della temperie dominante, tantomeno allo star system, tantomeno al mercato dei soldi come delle… idee.

C’è uno specifico tutto italiano (tanto per cambiare) in ciò, poiché all’estero le cose vanno un po’ meglio, soprattutto in area mittle e nord europea, anche in riferimento all’età giovane dei pubblici e all’apertura e interesse verso il nuovo. Ma si sa che l’ignoranza musicale e la penosa formazione nella scuola di base al proposito diffuse nello stivale non possono aiutare certo l’opera di artisti che cercano, prima di tutto, un segno stilistico eticamente rigoroso e gesti espressivi non furbetti, nel loro fare.

In più, le difficoltà oggettive si uniscono a un dato che emerge oggi a proposito delle scelte stilistiche e della loro freschezza e urgenza linguistica: ciò che è stato d’avanguardia per una generazione s’è un po’ trasformato in ortodossia per quella successiva, per cui anche molti giovani oggi (e questo accade anche all’estero) scrivono riproponendo stilemi della precedente stagione, che giocoforza sanno di stantio, mummificato e hanno perso ogni carica rivoluzionaria. Una sorta di accademismo dell’avanguardia. Per cui suona più moderno e attuale il Prometeo di Luigi Nono (che è del 1985) rispetto alla maggior parte di quanto viene scritto oggi in quell’ambito stilistico.

Per non parlare dei noiosi e insopportabili tentativi di risciacquatura in salse pucciniane o mascagnane (esprimo una personale opinione) di quella corrente “neoromantica” sciaguratamente sdoganata proprio negli anni Ottanta da Baricco, nel cui alveo stagnante ancora oggi avvengono insopportabili tentativi di rinascita di un sedicente genere operistico italiano antistorico e mestamente rivolto a un passato non resuscitabile, per la mancanza di coraggio e idee nel saper pensare ad altri “mondi nuovi”.

Un tentativo perso in partenza che arranca tentando di continuare ad agire imperterrito i luoghi e le prassi esecutive ottocentesche del teatro a ferro di cavallo con palchi, platea, l’orchestra in buca, divismo in scena e non è capace di inventare nuove funzioni della musica, nuove prassi di ascolto, nuovi strumenti per darle consistenza sociale, nuovi luoghi per proporla.

Quest’ultimo aspetto si lega fra parentesi, e abbiamo appena sfiorato una congerie di criticità assai estesa e complessa, ai problemi sesquipedali del mondo dello spettacolo, ai costi esorbitanti degli allestimenti tradizionali, all’inerzia elefantiaca di tanti enti che come pozzi di San Patrizio maciullano risorse per alimentare processi involutivi (perché non evolutivi) i quali non fanno che dare argomenti alle voci più oscurantiste. Quelle di coloro che, non sapendo vedere nell’educazione all’arte e alla cultura come nella formazione musicale, nella ricerca del nuovo, fattori fondanti della civiltà e tra l’altro anche volani economici dinamicizzanti, cercano demagogicamente di espellere tali temi da un concetto evoluto e illuminato del welfare, favorendo la convinzione che in tempi di crisi, davanti alle priorità di un malinteso assistenzialismo sociale, della cultura e della musica “forte” si possa tutto sommato fare a meno.

E alimentando, paradossalmente spesso da sinistra, una conservazione reazionaria e impantanata nella nuova musica, di una nuova società.

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