Alcuni anni fa gli screenwriter americani decisero di scioperare per le condizioni contrattuali. Fu un evento senza precedenti, in un settore di business decisamente poco sindacalizzato e non univoco in interessi e rappresentanza. Il risultato fu una paralisi o uno stallo di quasi tutto il settore cinematografico, con cancellazioni di importanti commedie, film e altri spettacoli di intrattenimento.
L’interruzione fu impressionante e il ruolo degli sceneggiatori emerse per una volta da dietro le quinte in modo prorompente: come a dire, senza le storie non si va avanti.
Ma in Italia? Beh, l’impressione è quella che si potrebbe benissimo andare avanti comunque. La professione di screenwriter, sempre che esista, è quantomeno poco conosciuta e altrettanto poco chiaro è il percorso di carriera per arrivarci, né credo esistano facoltà, così come quelle californiane, che selezionano sulla base della capacità di scrivere storie cinematografiche.
Il risultato è che si parla tanto di registi o attori, ma le nostre produzioni mancano invariabilmente di intreccio ed idee e molto spesso si va a pescare nella cronaca, con tante storie di mafia, o si creano fiction storiche o religiose perché quasi nessuno inventa niente, e quando inventano, beh lasciamo perdere: dai Cesaroni, a nonno Libero, a Terence Hill che fa il prete, Carabinieri e… mi fermo per pietà.
L’impressione è quella che la produzione televisiva o cinematografica segua, quando possibile, prima l’allocazione di risorse pubbliche (finanziamenti dello Stato per l’arte o il cinema), poi la ricerca di un regista, poi l’inserzione a cast di tutta una serie di raccomandati che ruotano intorno alle festicciole romane e solo alla fine ci si preoccupi di sceneggiare l’opera con una trama.
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