Biasanott da osteria Guccini e i frasifattisti incapaci di scansarsi e farcelo ascoltare

Di Guia Soncini

«Avevo 29 anni, adesso ne ho 83: devo ammettere che tra le due cose c’è una certa differenza». Francesco Guccini era un grande vecchio già prima dei trent’anni, e infatti questa è la risposta a una domanda su “Canzone delle osterie di fuori porta”: aveva 29 anni quando si alzava tardi tutti i giorni e tirava sempre a far mattino, 34 quando uscì la più precisa canzone sull’invecchiare mai incisa. Come facesse a sapere già tutto non lo sa nessuno, secondo me neppure lui.

«Io non sento praticamente niente di quello che hanno detto loro». Alla presentazione di “Canzoni da osteria”, il suo nuovo album di canzoni di altri, il massimamente dispettoso autore che ha deciso di non scriverne più di proprie prende la parola dopo non so quanti minuti, percepiti come ore o forse giorni da noialtri in platea, che sappiamo che Francesco Guccini è un oratore formidabile.

Lo sappiamo tutti, tranne il discografico che sale per primo sul palco e ci spiega che lui è della Bmg ma col disco c’entra anche non so bene cosa la Universal, e ora ci spiega il titolo che è diverso da quello della raccolta precedente epperò il progetto è lo stesso (avvincente, valeva la pena non dar subito la parola a Guccini).

Lo sappiamo tutti, tranne i professori che avrebbero il compito d’intervistarlo nell’aula magna della statale di Milano, e che trascorrono minuti (percepiti: mesi, anni) a: ripetere «tutti e tutte», sia mai ci sentiamo escluse; spiegarci che Francesco Guccini è un intellettuale (ah vedi, pensavo centravanti); recitarci la voce Wikipedia di Guccini, tot libri, tot dischi, tot anni di carriera; dire imperdibilità come «sono, lo dico senza retorica, emozionato».

Quando finiscono di compiacersi ascoltando loro stessi, e io finisco di dirmi che per forza gli studenti sono asini, con professori così incapaci di sintonizzarsi con coloro cui parlano, allora Guccini, che a 83 anni ha più senso dello spettacolo dei trapper, finge di non avere per un problema di diffusione sentito quel che è stato detto fino ad allora, così da poter passare a rispondere quel che gli pare. Professionista.

«Passo per un grande esperto di osterie: ne ho frequentate tre», e a quel punto Guccini dice cose che suonano diverse se sei cresciuta a Bologna. «Si chiamava Osteria dei poeti, il che illudeva molti di noi». Era in via dei Poeti, dove lui non lo sa ma abitava la mia amichetta del cuore, quella dalla quale da piccolissima copiai tutti i consumi culturali, Guccini compreso.

Era, spiega Guccini, cosa diversa dai bistrot di cui adesso è piena Bologna (lui non usa la parola «bistrot» perché è una persona seria): «I vini erano di due tipi, bianco o rosso, trebbiano albana o sangiovese, 25 lire. Adesso dicono: sentore di frutti di bosco. Mio nonno diceva “cazzo, sa di frutti di bosco”, e lo cacciava via: altra generazione». Per altre 25 lire, rievoca, se avevi fame ti davano un uovo sodo: «C’era grande scelta».

“Canzoni da osteria” si apre con “Bella ciao”, di cui Francesco Guccini dice che è «un piccolo omaggio alle donne iraniane», sottolineando – consapevole che da soli i giornalisti presenti mica lo noterebbero – che per adattarla ha cambiato «l’invasor» in «oppressor», «lì non c’è invasione ma c’è oppressione», e che però sa che «son cose che non servono a niente»: nel secolo che s’interessa solo ai gesti simbolici, è commovente sentire qualcuno consapevole del fatto che i simboli non hanno niente di concreto.

Contiene anche, “Canzoni da osteria”, due canzoni in bolognese, che «saranno le più criticate. Dai bolognesi». L’uomo che ha passato la più parte della propria vita artistica a Bologna, che ha titolato un disco col suo indirizzo bolognese, quell’uomo lì è di Modena, «e già questo getta un’ombra inquietante» su di lui per i bolognesi «convinti che Bologna sia la capitale del mondo».

La Bologna di quell’osteria di fuori porta in cui invecchiava da ventinovenne è una Bologna che non ci fu più quasi subito, quella del ristorante della stazione aperto tutta notte, ma poi arrivò l’austerity del ’73, l’attentato dell’80, e finì il tempo in cui si poteva mangiare una lasagna all’alba, il tempo dei biasanott, parola bolognese per dire quelli lì che vivevano la notte e ai quali Francesco Guccini vorrebbe che Bologna intitolasse una targa.

biasanott che lo fermavano e gli dicevano Francesco ma che belle canzoni, Francesco ma che canzoni incredibili, hai mica cinquemila lire da prestarmi? La Bologna dove nessuno dormiva mai e, se Guccini portava gli studenti americani alla festa dell’Unità e quelli si meravigliavano che fosse proprio uguale alle sagre loro, lui poteva rispondere: sì, uguale, ogni tanto mangiano un bambino ma a parte questo uguale.

Al pranzo successivo alla conferenza stampa, sua cognata racconta del primo Natale con la famiglia di Raffaella, la moglie, quando Francesco portò un tartufo «grande come un melone», e nei decenni a venire ne ha portati di molto più piccoli, tanto ormai l’aveva conquistata, e io penso che è un’immagine che sembra scritta da Guccini, burattinaio di parole.

Uno di fronte al quale, per ragioni misteriose, nessun inadeguato intervistatore ritiene mai di dire: so che non siete qui per ascoltare me, e poi tacere. Questa pagina prende il nome da un’invettiva del Guccini trentaseienne (un brano che Guccini ritiene minore, giacché nessuno è meno in grado degli autori di giudicare le opere). Ci ripenso quando uno dei due professori sul palco dell’aula magna premette all’ultima domanda «Il tempo è tiranno»: penso che «mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più d’un cantante» era un verso che aveva senso in un secolo in cui l’università ci pareva un’istituzione seria. Non un posto di frasifattisti incapaci di scansarsi e farci sentire Guccini.

Da Linkiesta

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.